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I Balcani: dalla Dalmazia al Kosovo.

La frammentazione della Jugoslavia ha creato questo mix di paesi, popoli, culture e religioni. Questa convivenza, a volte forzata, non è facile, sono ancora vivi i rancori dovuti al conflitto degli anni 90’, dove in un momento di follia ci furono atti di pulizia etnica ed episodi di ferocia senza guardare in faccia a nessuno. In una manciata di chilometri ci si ritrova in paesaggi totalmente opposti tra di loro, come se la natura conoscesse i confini che si sono creati nel tempo. A distanza di qualche anno (Terra Santa ’09 ndr) mi ritrovo a passare questo dedalo di frontiere, più o meno abbandonate, questa volta sono spinto dalla voglia di vedere dei paesi diversi da quelli conosciuti in precedenza: ora sono pronti ad accogliere il moto turista. Con me ci sarà la mia compagna di vita ed avventura Elena, una novizia dei paesi dell’Est, ma con una grande voglia di conoscenza e di macinare chilometri in sella alla sua moto. Il nostro viaggio incomincia da Ancona dove ci imbarchiamo in un comodo traghetto che ci sbarcherà a Zadar o Zara. L’unico inconveniente registrato è la temperatura a bordo: siamo costretti a tenere indosso le giacche da moto per l’aria condizionata sparata addosso che ci gela. Una volta a bordo ci sistemiamo vicino ad altri motociclisti, in verità mi aspettavo di vederne di più, ma forse questa rotta è meno frequentata di quella di Spalato. Il primo consiglio che mi sento di darvi è di evitare di prenotare il più veloce e costoso aliscafo, anche oggi con un po’ di mare mosso non molla gli ormeggi, lasciando sul molo i turisti con il muso lungo. La convivialità con i due motociclisti molisani, Angelo e Rino, diretti in Grecia dura pochi minuti, io vengo da una nottata di lavoro intenso, sono un Vigile del Fuoco, e quindi mi accascio sul divanetto e riprendo conoscenza in territorio croato. Ora che mi sono ricaricato sono pronto a sbarcare, prima frontiera, controllo al volo del passaporto, evitiamo di pernottare nella caotica città portuale, ci dirigiamo verso la costa che pullula di motel, camere ed appartamenti a bordo mare. Visto che durante la traversata sono stato “maleducato” dando le spalle ai nuovi amici e russando, impedendo anche la conversazione, ci fermiamo tutti nello stesso posto per la cena ed il pernotto. Dei bei pezzi di agnello e birre fresche allietano i nostri discorsi motociclistici e, visto che la rotta verso sud è uguale per entrambi, proseguiremo insieme fino a che possiamo. Nel frattempo il vento si è fatto talmente forte che mi costringe a mettere dei mattoni dalla parte opposta al cavalletto per evitare che le moto si rovescino. La finestra della camera non riesce a rimanere chiusa, ci puntiamo gli stivali da moto ed il letto, ma la notte non dormiamo per il frastuono. La mattina proseguiamo ancora per qualche chilometro lungo la strada costiera ma poi siamo costretti a ricorrere alla noiosa autostrada se vogliamo percorrere strada invece di fare code. Arriviamo nei pressi del confine con la Bosnia Erzegovina, la seconda frontiera, qui neanche la soddisfazione di un timbro, veniamo invitati a proseguire. Pochi chilometri e di nuovo frontiera, entriamo nuovamente in Croazia, scena già vista, appena vedono il tricolore sul cupolino della moto ed estraiamo il passaporto color rosso bordeaux, veniamo salutati. Nei pressi di Dubrovnik salutiamo i molisani, noi usciamo dalla statale e puntiamo al centro della caotica cittadina. Siamo abbastanza fortunati a trovare un appartamento con garage nei pressi della città vecchia. Due simpatici anziani offrono questa sistemazione ideale per i motociclisti, ci vedono accaldati e ci offrono subito dell’aranciata fresca, se fosse per loro staremmo ancora a chiacchierare in terrazza. A piedi ci dirigiamo nella zona turistica la confusione diventa sempre di più, al limite della ressa. La città è stupenda ma non riusciamo a godercela, qui le maggiori compagnie di crociera sbarcano anche 6000 passeggeri in una sola volta, ognuna, ed oggi le presenze stimate sono quasi 40000! Il secondo consiglio riguarda i prezzi esposti nei ristoranti di questa città, sono quasi tutti in corone croate, per poi mischiarli in euro con qualche menù speciale, la sorpresa arriva con il conto, loro la chiamano offerta, io truffa. Un temporale estivo ci costringe ad una ritirata nel nostro appartamento, tanto non siamo riusciti a vedere altro che teste davanti a noi, anche una semplice foto risultava “inquinata”. La mattina siamo decisi ad andarcene alla svelta dall’inflazionata e cara Croazia, vogliamo arrivare a Girocastro o Argirocastro, anche qui troviamo due nomi simili per la stessa città, tappa lunga ma non impossibile.

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In Montenegro prendiamo il traghetto che consente di tagliare il fiordo, altrimenti la statale compie un giro infinito, che avendo tempo si potrebbe anche fare, ma si rischia di rimanere intrappolati nel traffico del lungo mare. Qui con due euro e senza attesa, le chiatte sono due che fanno aventi ed indietro, con meno di cinque minuti di traversata  si riprende la statale. I nostri sogni s’infrangono nel temporale che troviamo, non abbiamo indossato l’antipioggia convinti che si tratti di “due gocce”, il solito ottimismo motociclistico, invece viene giù il diluvio. Con le tute gocciolanti in fondo al Montenegro ci arrendiamo, non vogliamo sfidare la sorte nelle viscide e malmesse strade albanesi. Troviamo un appartamento a Bar, un anonima e brutta cittadina portuale, e dopo aver sistemato il nostro abbigliamento usciamo a fare la spesa in un supermercato, cosi sondiamo anche i prezzi della vita da queste parti. Rapportato agli stipendi il costo della vita è caro. La mattina ripartiamo freschi e riposati, ci arrampichiamo verso il passo che conduce in Albania, a dire il vero sembra di essere sulle Dolomiti, mancano solo le strade perfette. Da qui in poi le buche profonde e larghe quanto la carreggiata diventeranno una ricorrenza, qui oltretutto troviamo sempre del ghiaino in piena traiettoria. I ritmi di marcia rallentano e quella che sembrava una semplice tappa da circa 450 chilometri sembra non finire mai. Entriamo in Albania senza problemi, la nostra carta verde non è valida, ma nessuno ci chiede una polizza aggiuntiva; considerando che, anche quando si stipulano, non si riesce a capire cosa coprono e molte volte è quasi nulla, quindi si paga un pezzo di carta inutile. Una volta scesi nuovamente in pianura, abbiamo il problema opposto di ieri, il caldo, il sole si fa sentire. La strada procede tra statale e autostrada, gratuita, per poi terminare all’improvviso appena si passa Tirana o Durazzo, a sud di queste città la situazione del manto stradale precipita. Troviamo una serie infinita di cantieri, non di ammodernamento ma di riparazione di quello che fu l’asfalto steso ai tempi del regime. Molto spesso siamo costretti a guidare in piedi sulle pedane, cercando di intravedere tra la polvere alzata dai camion. La cosa che salta subito all’occhio di questo stato è la situazione economica, alcuni non se la passano bene, altri meglio, si vedono baracche alternate a ville. Arriviamo a Girocastro a metà pomeriggio, l’ora ideale per visitare la città dei mille scalini, patrimonio dell’UNESCO, prima sarebbe stato impossibile vista la calura. Grazie all’aiuto di un tassista troviamo l’albergo che cercavamo, un posto in pietra e tetti di legno intarsiati. La cittadina non è proprio l’ideale da girare in moto. Sono tutte viuzze strette e ripide, lastricate da pietre oramai consumate, viscide adesso che sono asciutte, non vorrei trovarmi qui quando piove. Oltretutto gli albanesi sfrecciano a velocità da pazzi e con questo fondo non riuscirebbero neanche a fermarsi in caso di bisogno, ma loro a bordo di vecchie Mercedes non sembrano preoccuparsene. Mentre camminiamo sulla ripida via in direzione del castello, in un paio di occasioni siamo costretti a rifugiarci oltre il parapetto per non venire investiti.

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La città vecchia situata all’interno del castello è stata usata come prigione dai nazisti e dal regime, incontriamo un vecchio professore che ci racconta di essere stato rinchiuso qui perché ascoltava la radio italiana durante la dittatura. Ci congediamo da lui con una richiesta, gli piacerebbe avere una musicassetta di Eros Ramazzotti ed una copia del libro Cuore, per il libro si può fare, ma cassetta non saprei come procurarla. Le viuzze diventano ancora più piccole, almeno siamo al sicuro dai “razzi albanesi”, ci sono dei lavori in corso che rovinano l’atmosfera, ma quando arriviamo ad una specie di terrazza, davanti a noi si apre uno stupendo panorama sulla vallata sottostante. Da qui si ammirano anche i tetti del paese, sono tutti in ardesia e quando incontrano il sole che tramonta brillano con dei riflessi stupendi. Visitiamo anche la casa natale del dittatore Hohxa, è grazie a lui che questo paese è rimasto incontaminato negli anni. Per cena veniamo inviati presso un ristorantino gestito da una famiglia, dove assaporiamo delle specialità nazionali. Andiamo a dormire stanchi ma soddisfatti, sono giornate come queste che ripagano la fatica di viaggiare in moto. La giornata di oggi prevede una tappa di circa 150 chilometri per cominciare a risalire nord, con tappa a Berat, altra meta obbligata per chi visita questo paese. Partiamo con calma, ma non abbiamo voglia di rifare la stessa strada, cerchiamo una soluzione sulla mappa e la troviamo, oltretutto si risparmiano anche dei chilometri. Quando arriviamo al bivio la troviamo segnalata, anche il GPS mi conferma che bisogna svoltare. Sono dubbioso sulla qualità di questa scorciatoia, sulla cartina è asfaltata, ma il navigatore me la dà come sterrata. Fermo alcune macchine, quasi tutti gli albanesi parlano italiano, la nostra tv è molto seguita, inoltre non ce ne è uno di quelli con cui parliamo che non sia venuto a lavorare in Italia. Come al solito i pareri sono molto discordanti, non si riesce a venirne a capo, contatto via interfono Elena che si è fermata più avanti all’ombra di una pianta, le domando se ha voglia di fare un po’ di sterrato. Lei intimorita mi raccomanda che non sia come quello dell’ultima volta quando, in Tunisia, l’ho messa alla prova;  le ricordo che è ora di mettere in atto le lezioni del corso di off-road che ha frequentato. La strada si snoda in mezzo ad una vallata stupenda, seguiamo il corso di un grande fiume verde smeraldo, ci complimentiamo per la scelta. Passiamo un paio di agglomerati di case, compaiono le prime buche, poi tratti di strada bianca, alternati a resti di asfalto. La traccia sul GPS è giusta, le indicazioni sulla cartina pure, proseguiamo tranquilli, tra poco dovremmo imboccare la statale che ci condurrà a Berat. Il fatto di trovare qualche mezzo pesante nel senso opposto mi rassicura, se ci passano loro la strada sarà buona. Dopo un mercato di contadini e pastori la strada peggiora, chiediamo conferma a dei locali se siamo sulla strada giusta, purtroppo ci rispondono di si. Ci tocca salire per uno sterrato, sono 50 chilometri, però non riusciamo a capire se si tratta di uno spezzone di strada rovinata o sia tutta cosi l’unica è provare. Lo sterrato diventa una mulattiera, di quelle impegnative, la ruota posteriore scarta in cerca di trazione, il fondo fatto di pietre smosse non è per niente facile e divertente. Dopo 3 chilometri ci fermiamo, non possiamo proseguire in queste condizioni, a 10 km/h ci vuole tutto il giorno, forature escluse… Elena è venuta su benissimo, ma è già sfinita, non dalla fatica ma dalla tensione. Il dietrofront non è una sconfitta ma un scelta intelligente. Ora bisogna trovare il modo di girare le moto, evitando di cadere, con sudore ci riusciamo. Adesso bisogna prendere il via, la ripida salita è diventata discesa, ancor più impegnativa. Elena prende coraggio con un respiro profondo si lancia, cerco di incoraggiarla ma vengo sgridato, la deconcentro. Arrivata in fondo la guardo negli occhi, che da terrorizzati sono diventati felici, ora sa che ce la può fare, un viaggio serve anche a mettersi alla prova. Per la cronaca questa “strada” era peggiore di quella tunisina, ed io che di strade ne ho percorse parecchie vi posso assicurare che era veramente brutta. Se vogliamo raggiungere Berat dobbiamo ritornare indietro e rifare il giro, la scorciatoia si è trasformata in un esperienza, ad un bivio occorre anche lasciarsi andare e provare, il mototurismo è anche questo. Riguardando la mappa ed il navigatore, mi spiego dove passavano quei camion e bus che abbiamo incontrato, più avanti c’era un altro bivio, che allungava, non di poco il giro, ma almeno era percorribile.

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Ora dopo aver provato il peggio questa strada non ci sembra niente male e arriviamo nella città delle mille finestre, così viene definito quest’altro patrimonio dell’UNESCO, stanchi ma soddisfatti. Anche qui andiamo diretti all’albergo che ci eravamo prefissati, sistemiamo le moto nel garage e siamo pronti per affrontare la salita che conduce fino alla cittadella fortificata di Kala, cosi viene chiamata la parte antica della città. Un dedalo di vicoli con oltre venti chiese, più o meno malandate e non sempre aperte. Ci godiamo una birra all’ombra di un cortile, siamo gli unici turisti, il relax è totale. Dopo essere tornati verso il centro della città visitiamo il quartiere mussulmano, le moschee sono chiuse e quindi ci accontentiamo di guardarle con il naso all’insù. Anche noi, come gli albanesi, compriamo una pannocchia arrostita e passeggiamo nel centro moderno, dove i giovani si soffermano nelle numerose vetrine, Berat è una cittadina vivace. La sera ceniamo nel ristorante dell’albergo con specialità albanesi totalmente diverse da ieri, siamo distanti un centinaio di chilometri da Girocastro, ma la cucina è totalmente diversa. Una colazione abbondante in terrazza e andiamo a caricare le moto, qui troviamo una sorpresa, una macchina targata svizzera ha parcheggiato davanti alla porta del garage, non possiamo uscire. Passa molto tempo prima che si rintracci il proprietario, gli ricordo che sono sempre precisi a casa loro, poi come varcano il confine diventano peggiori degli altri, oltretutto ho aggiunto anche cose che non si possono scrivere… La nostra destinazione è il Lago di Ohrid in Macedonia, dove non abbiamo ancora deciso se fermarci o no, vedremo come si presenta. Le tormentate strade albanesi oggi presentano una variante, il guado. Ad un tratto la strada viene ingoiata dall’acqua, si tratta di una serie di crateri, buche sarebbe riduttivo, piene di acqua fangosa. Le macchine che mi precedono le vedo cadere dentro, un pullman s’inclina fino a toccare il pianale. Impossibile vedere dove mettere le ruote per cercare la traiettoria migliore, bisogna solo andare. Parto io in avanscoperta, alla prima buca cado letteralmente dentro con l’anteriore, devo lavorare di frizione per non mettere i piedi a terra, e sicuramente cadere, visto che non toccherei, l’acqua supera le pedane. Sono costretto a buttarmi a lato perché il solito albanese non ha voluto aspettare il suo turno e si è gettato dentro al guado, ora mi ritrovo in bilico con i piedi su uno strato di melma scivolosa, oltretutto si appoggia con il suo paraurti contro la mia valigia per cercare di evitare chissà che cosa, non si vede nulla. La reggo a fatica mentre maledico lui i suoi antenati e le generazioni future, cadere in un pantano del genere vuol dire danni di sicuro. Alla fine ne esco indenne, metto la moto in posizione sicura e torno indietro con la macchina fotografica in mano, voglio immortalare il passaggio della mia compagna. La rassicuro attraverso l’interfono, poi all’improvviso lei parte, alza una bella onda e ne esce veloce, talmente tanto che non riesco a fotografarla, appena se ne accorge mi chiede se ho scattato, alla mia risposta negativa partono gli insulti, l’interfono è anche questo! Entriamo in Macedonia e come per miracolo l’asfalto torna perfetto, appena il confine dall’alto del passo montano si vede il lago sulla vallata sottostante, fa tanto caldo, non vorremo scendere da qui. Arriviamo giusti per il pranzo, ma siamo disappetenti, ci gustiamo un gelato in un bar del centro, sembra una località balneare nel pieno della stagione, troppa folla e confusione, non ci piace. Ci basta un’occhiata per capirci, saltiamo in sella e puntiamo al Kosovo, sono convinto che questo lago visto in un altro periodo è più bello. La strada è ottima e ci permette di coprire la distanza fino al confine senza difficoltà. In frontiera stipuliamo l’assicurazione e ci rimettiamo in marcia, dall’ultima volta che sono passato da qui, era ottobre del 2009, le cose sono migliorate, la presenza massiccia di militari della KFOR è sparita. Le strade sono state ricostruite o sono in fase di ultimazione. Dopo dei tratti con sterrati dovuti a dei lavori in corso, ci ritroviamo su di una autostrada che non ha nulla da invidiare alle nostre, anzi questa è anche gratis! Quando arriviamo Prizren è oramai sera, troviamo un alloggio subito dietro la piazza principale, ci mettiamo i panni da turista e anche noi ci riversiamo in mezzo alla folla che anima questa città. Gli odori della carne alla griglia si sentono ovunque, i locali sono affollati di giovani ed intere famiglie, anche noi ne scegliamo uno e mettiamo le gambe sotto un tavolino, pronti ad assaporare qualche specialità. Una volta rifocillati ci mettiamo a passeggiare, osservando i punti da visitare l’indomani, per poi rifugiarci in albergo. Quando ci alziamo la città sembra deserta, è tutta per noi, riusciamo a fotografare tutto quello che vogliamo, senza che nessuna testa compaia sull’immagine. Aspettiamo le 10, ora in cui apre la moschea, abbiamo il permesso di entrare da parte del custode, ad Elena viene fornito un velo da poggiare sulle spalle. Ritorniamo all’albergo, ci vestiamo da motociclisti e siamo pronti per partire, salto in sella per fare manovra ma la  mia moto non mi si muove. Guardo il motivo di tale impedimento e mi rendo conto che la gomma è a terra. Un foro di dimensioni immani, la chiave della moto vi ci s’infila tranquillamente. Tiro fuori il mio kit di riparazione professionale, il compressore ed in cinque minuti sono pronto a ripartire. La sudata non me la sono risparmiata lo stesso, con questo caldo ogni movimento è una fatica. Ci mettiamo in direzione di Pec, dove abbiamo in programma di visitare il Patriarcato ed un monastero. La distanza da percorrere è breve e quindi siamo nella cittadina all’ora di pranzo. Ci mettiamo alla ricerca di un albergo, ne troviamo uno vicino al centro, ma non è adatto alle nostre tasche, poi mentre siamo li davanti che consultiamo la guida, si avvicina un anziano in bici. Ci chiede se abbiamo bisogno di aiuto in un italiano stentato, gli chiedo dove poter trovare un alloggio per noi e le nostre moto, ci indica un posto alla nostra portata, ma non ha il garage e lasciare le moto all’aperto in zona stazione non ci sembra il caso. Si presenta come un professore dell’università in pensione, mi porge il suo biglietto da visita e c’invita a casa sua per la notte, ha un grande garage per le moto. Io accetto subito, Elena sembra titubante ad andare a casa di sconosciuti. Io in viaggio sono abituato a lasciare i pregiudizi a casa, non è la prima e non sarà l’ultima volta che finisco a casa di estranei. Lo seguiamo mentre in bici ci conduce verso casa sua, quando siamo arrivati, estrae la sua autovettura dal garage e la abbandona sopra un marciapiede, ora è tutto per noi. Gli faccio notare che ci sarebbe posto per tutti i mezzi, tanto noi non abbiamo intenzione di usare le moto. Mi avverte che tra poco lui e sua moglie partono per andare a trovare il figlio a Pristina, torneranno domani, casa è tutta la nostra! Mi ritrovo sul divano, con un bicchiere di aranciata in mano a guardare una gara delle olimpiadi con un perfetto sconosciuto con cui mi trovo a mio agio. Una volta che ci siamo lavati e cambiati, prende la macchina e ci accompagna al Patriarcato, mi consegna le chiavi di casa e mi dice di lanciarle dentro la finestra una volta sfilate le moto. Ci saluta ricordandoci che la sua casa è la nostra casa. Peccato che se ne vada, la conoscenza di una persona così aperta meritava di essere approfondita, speriamo un giorno di ripassare da queste parti. Anche questa volta la strada mi ha dato un’altra lezione di vita, quanti di noi avrebbero aperto la propria casa ad un turista straniero? Per entrare al Patriarcato occorre lasciare il passaporto alla guardiola della KFOR, si ottiene un pass e si può proseguire. Questo posto è protetto dalla forza di pace perché ha subito delle minacce, vecchie e lunghe storie del conflitto passato, troppo difficili da spiegare in poche righe. Dalla confusione si passa alla quiete di questo posto, che sembra lontano chilometri dalla civiltà. Ad una giovane suora chiediamo informazioni su come poter accedere alla chiesa, ci prega di attendere in giardino: andrà a chiamare la custode. Poco dopo si presenta davanti a noi una minuscola ed arzilla vecchietta, vestita in modo estroso per essere in Kosovo, mi ricorda più una francese.

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Comincia con una raffica di domande in italiano perfetto sul perché siamo qui e perché vogliamo vedere la chiesa, per finire se conosciamo la storia della religione ed a quale apparteniamo. Io non essendo praticante, sulla storia sono poco preparato, le rispondo che prima di scegliere che fede abbracciare mi guardo intorno, m’informo ed eventualmente deciderò. Prendo subito la prima sgridata, alza il bastone in modo minaccioso ma oramai non mette più paura a nessuno, dicendo che bisogna conoscere queste cose. La convinco ad insegnarci qualcosa e comincia la visita. Questa signora mi affascina, ci mette l’anima a spiegarci tutti gli affreschi e cosa rappresentano nella storia della chiesa, ogni tanto mi fa delle domande a trabocchetto a cui rispondo in modo pietoso. Doveva essere una semplice visita e invece ci fermiamo tutto il pomeriggio estasiati, ho imparto tante storie. Con la signora Dobrilla diventiamo così amici che alla fine della visita facciamo merenda insieme, noi avevamo saltato il pranzo, all’ombra di un albero, con caffè serbo e torta tipica. Ci racconta la sua storia, di come ha imparato l’italiano, dei brutti momenti della guerra e di quello che fa qui adesso. Ci salutiamo con dispiacere, mi ha infuso serenità passare con lei delle ore. Una volta fuori da qui camminiamo a lungo fino alla città, dove una volta cenato torniamo a casa del professore. La mattina gli lasciamo un biglietto di ringraziamento e via verso Sarajevo, oggi lunga tappa di trasferimento. Pranziamo con panino in una specie di bar su un passo montano, poi una volta scesi costeggiamo il fiume fino alle porte della città. Questa città insieme a Mostar fu il simbolo della guerra dei Balcani, sotto assedio per ben tre lunghi anni, porta ancora le cicatrici, profonde, del conflitto. Una volta sistemati, nella zona del quartiere mussulmano, ci addentriamo nel centro storico, tra fori di proiettili e granate spiccano le targhe di bronzo con i nomi delle vittime. Le vie sono piene di caffè all’aperto. Questa città mette un po’ di tristezza, perché le cose brutte non si scordano. Con la testa piena di pensieri l’indomani ci rechiamo a Mostar, qui il sovraffollamento nella zona del ponte vecchio toglie il respiro, bisogna fare lo slalom tra i tavolini e ceste di souvenir. Io me la ricordo deserta quando ci passai durante l’autunno (Terra Santa ‘09 ndr), era bella, ora ci viene voglia di scappare. Con la consapevolezza che il viaggio sta volgendo al termine ci avviciniamo alla costa croata, dove un altro turismo di massa ci attende, ci rifugiamo nella stessa pensione dell’andata in attesa del traghetto dell’indomani. Sotto un pergolato assaporiamo un maialino squisito, e mentre sorseggiamo l’ennesima birra ripensiamo soddisfatti a questi magnifici Balcani.

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